Enzo Venezia

Enzo Venezia è nato a Palermo, il 4 gennaio del 1950, laureato in architettura opera da diversi anni nel campo delle arti in diversi settori. Ha progettato numerosi allestimenti di grandi mostre per conto d’importanti enti pubblici. Come scenografo e costumista ha collaborato con note personalità dello spettacolo per diverse organizzazioni teatrali, sia pubbliche che private. Si è occupato nell’ambito dei beni culturali di comunicazione grafica.

Attività artistica

Per la sua attività di artista ha realizzato numerose mostre personali in diverse città nazionali ed internazionali; tra le ultime ricordiamo: “Luminaria” del giugno 2003, realizzata a Palermo nei locali delle Tre Navate ai Cantieri Culturali alla Zisa, presentata dal noto critico d’arte Achille Bonito Oliva. Seguita da “Resurrectio”, realizzata a Palermo nella Ex Stazione Sant’Erasmo con interventi di Eva di Stefano, Roberto Alaimo, Michele Cometa. Seguita da “Rituali del mito”, allestita alla sala Duca di Montalto a Palazzo Reale di Palermo. In catalogo testi di Eva di Stefano, Giuseppe di Benedetto. A seguire in ordine di tempo “Enzo Venezia” pittura video installazioni, Fondazione Sant’Elia Palermo. In catalogo testi di Emilia Valenza, Giuseppe di Benedetto. Ultima in ordine di tempo A.C.I.D.O. , allestita al museo Riso, in catalogo testi di Sergio Troisi e Michele Cometa. In quanto alla sua attività teatrale, va posto in rilievo la stretta collaborazione con il regista-autore Claudio Collovà, con il quale ha realizzato: “ I nostri Tempi ”, “ Telemachia ”,Fratelli”,  “ Horcinus Orca” e “Viaggio al termine della notte” per il Teatro Biondo stabile di Palermo e “ Ogni qualvolta levo gli occhi dal libro” per le Orestiadi di Gibellina. Sempre per il Teatro Biondo ha curato le scene e i costumi del “ Marat Sade “ per la regia di Claudio Gioè e le scene e i costumi per “ Il cavaliere sole” per la regia di Cinzia Maccagnano. Negli ultimi anni ha realizzato alcune grandi opere pubbliche: i mosaici per la Chiesa di San Gregorio di Agrigento, e il portone in bronzo per la Chiesa della Madonna di Lourdes a Palermo. Enzo Venezia è interessato alla espressione culturale del mediterraneo, del mito ed ai suoi rituali.
 La Grecia, anche a causa della sua presenza in Sicilia, è stato sempre un riferimento per il suo lavoro artistico, con la ricchezza di soggetti che le appartengono, Troia, le guerre, il personaggio di Ulisse, gli dei con i loro poteri, e i loro riti sacrificali, etc. Enzo Venezia ha trovato nel mondo greco tanti soggetti di interesse, tra cui il mito, il suo preferito è Prometeo, e continua a interessarlo fino ad oggi. Il fascino della mitologica, dalle sue metafore, dai suoi significati e allusioni, sono argomento di riflessione sulla condizione umana. Trova di una sacralità assoluta il sacrificio di colui che non rinuncia a portare agli uomini il sapere. E’ convinto che la divulgazione del sapere sia un imperativo, oltre una preziosa conquista sociale, convincimento che gli viene anche da tanti anni d’insegnamento. Si è interessato al mito greco, al fine di ritrovare, nel lavoro, la propria identità, e le origini della propria cultura.
 Per questi motivi più avanti negli anni si è interessato anche al mito popolare, a volte una sovrapposizione dell'antico mito greco originario. Anche questo lo ha portato alle radici della propria cultura: l’"identità siciliana". A questo ha dedicato la maggior parte del lavoro di artista. Crede sia giusto portare la propria identità con orgoglio, senza provincialismi, è convinto che questo comporti una missione precisa e irrinunciabile per ogni artista. Sente di aver ereditato questo concetto da autori come: Sciascia, Pirandello, Guttuso, etc. E' sua intenzione col suo lavoro di artista, inserirsi in questo percorso, che mira attraverso l'identità siciliana ad esprimere le tensioni, i disagi e i valori del nostro tempo. Il "nostro tempo", è proprio questo che sente di esprimere qualunque sia il soggetto che tratta. Il concetto di contemporaneo, nella sua azione artistica è sempre primario, da qui il proponimento di rappresentare attraverso i segni, i concetti e il linguaggio che usa, cerca sempre di esprimere i valori, i disagi e le inquietudini della contemporaneità. E’ convinto, che nessuna espressione artistica sia veramente tale e incisiva se non è rappresentativa del tempo in cui è stata prodotta.

Lavorare a Palermo

C’è un senso nel mio lavorare, che racchiude il mio legame profondo con la città in cui abito ed opero, un senso costituito da un lavorare che agisce ed è agito contemporaneamente. Per me fare e lavorare sono la stessa cosa, c’è in queste opere una dinamica interna e perennemente in fieri e prima che io potessi possederle, mi avevano posseduto. Ed è in questa doppia prospettiva che, in tutti questi anni, si è sviluppato (dentro e fuori di me) il mio felice ma traumatico rapporto con Palermo. In queste opere ho cercato di raccontare le asprezze e le derive provocate dal lavorare in una città eternamente sospesa, incerta, dilaniata e in ansiosa attesa di soluzioni continuamente procrastinate, di progetti annunciati e poi liquefatti. Nonostante l’enorme sforzo di chi sul suo territorio produce, Palermo appare ancora oggi – a parte alcune eccezioni – una città inespressa, opaca, autoreferenziale. E questo, a dispetto della qualità delle sue opere e dei suoi operatori. Restano i fatti, gli oggetti prodotti, che continuano, per fortuna, a lavorare autonomamente, persino al di là dei propri autori. è su questo lavorio, di rinnovate strategie promozionali e promuoventi, che ho voluto continuare ad investire, a spendermi, a non arrendermi. Questa mostra mi offre l’opportunità di (di)mostrare l’unitarietà del mio lavoro, che nonostante si sia speso con modalità diverse e in svariati campi di linguaggio, è stato sempre guidato da un’unica ispirazione e intenzionalità progettuale. Il corpus della mostra espone opere pittoriche, esercizi di grafica, video, scenografie e installazioni, organizzate lungo un (volutamente) frastagliato percorso espositivo. La mia ambizione è che queste opere non si limitino a parlare tra loro, né tantomeno parlino solamente di chi le ha fatte, ma che possano “irradiarsi”, proiettarsi in un campo che riguarda l’intimità di chi le guarda e il luogo stesso che ogni loro spettatore abita giorno dopo giorno. È questo il senso di questa mostra composta da una sola moltitudine: indicare un mio disagio che è stata anche la mia piccola fortuna, quella di aver sempre lavorato in modo solitario e marginale, senza mai essere inquadrato in un’etichetta che, inglobandomi, m’imprigionasse. Sono contento di esporre i miei lavori in seppia, che hanno segnato le origini del mio lavoro, “il prima del prima” (fino a oggi non sono state mai esposte, se non in forma sporadica). Queste opere sono state realizzate durante un periodo cupissimo di Palermo, negli anni della mattanza mafiosa, quando sui frontespizi dei quotidiani si contavano i morti ammazzati. In esse non compare il colore, come se fosse stato strappato via, a segnare scoramento e disillusione… ma non resa.  Si può intuire facilmente quanto Palermo sia stata non solo il mio teatro e la mia cifra tematica, ma il mio privilegiato spazio scenico generatore. Mi piace utilizzarne i segni e le metafore. In questa mostra la città si racconta attraverso alcune figure che diventano emblema della sua identità. In esse c’è quel respiro che vuole lasciar effondere gli odori della produzione di certi maestri da me riconosciuti, oltre che di scritture a cui mi sento legato da affinità elettiva: da Leonardo Sciascia a Renato Guttuso, da Bruno Caruso a Luigi Pirandello, da Franco Scaldati a Michele Perriera. Ho sempre pensato che la maniera migliore per uscire dal provincialismo coatto fosse quella di portare la propria dimensione espressiva a confrontarsi con valori assoluti, per poi poterli sciogliere nell’immanente, nella flagranza del reale.  Ed è questo un risultato che ho sempre cercato di ottenere assumendo e trasmettendo valori (non solo estetici), lavorando riflessioni ed eccentriche fughe. Si può intuire quanto abbia sempre amato la dialettica, nel confrontarmi con altri segni, altri stili, altri modi e modelli di cui riconoscevo l’importanza e il peso. In questo percorso sono pure presenti alcuni video che documentano il mio lavoro scenografico svolto per il Teatro. Ho sempre rifiutato di concepire la scenografia come un limitato “servizio” reso allo spettacolo, l’ho invece intesa come una possibilità di sintesi, di dare immagine alla parola e all’idea che questa parola può animare, e questo attraverso la pratica dell’installazione artistica. Nonostante il mio progressivo, conquistato interesse per gli strumenti mediatici da utilizzare come medium espressivo, nonostante la mia curiosità di fronte alle tecniche molteplici sorrette dalle nuove tecnologie, la mia predilezione rimane ancora l’acquerello, che è la mia scena primaria. Ancora oggi, infatti, mantengo costante la sensazione che gli altri metodi e strumenti, che le altre soluzioni adottate per le mie azioni non sono che incursioni, esplorazioni necessarie, sconfinamenti su rotte impervie, tutte capaci di condurmi ad una meta che, ogni volta, mi indicava la strada del ritorno alle origini. Il ritorno al foglio, all’inchiostro. E così intuisco che questo mio inquietato procedere, questo mio lasciarmi possedere (anche infantile) da strumenti e suggestioni, se da un lato mi offre una latitudine privilegiata nella quale posso esercitare tutto il mio divertimento e l’infinita passione per il mio lavoro, dall’altro lato ribadisce un’unica mia vocazione: quella per la pittura.